Il principio di non contestazione e il regime delle preclusioni
La valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte (art. 416, comma 3, come sostituito dalla L. n. 533 del 1973 sul rito del lavoro; art. 167 c.p.c., comma 1, novellato dalla L. n. 353 del 1990; art. 115, comma 1, come modificato dalla L. n. 69 del 2009), deve essere correlata al regime delle preclusioni, che la disciplina normativa del giudizio ordinario di cognizione ricollega all'esaurimento delle fase processuale entro la quale è consentito ancora alle parti di "aggiustare il tiro", sia allegando nuovi fatti -diversi da quelli indicati negli atti introduttivi- , sia revocando espressamente la non contestazione dei fatti già allegati, sia ancora "deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte". Il principio di non contestazione opera, pertanto, quale criterio residuale cui ricorre il Giudice nella ricostruzione della fattispecie concreta nel caso in cui non sia in grado di pervenire all'accertamento positivo dei fatti storici in base alle risultanze probatorie a disposizione, soltanto dopo la definizione della fase di trattazione, in quanto solo allora può ritenersi formata la preclusione dell'esercizio del potere di allegazione e deduzione delle parti. La condotta del convenuto non contestativa dei fatti allegati dall'attore è retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall'art. 183 c.p.c., risultando preclusa ogni ulteriore modifica determinata dall'esercizio della facoltà allegatoria e deduttiva, all'esito della fase di trattazione, venendo a cristallizzarsi l'oggetto del giudizio con la definizione del thema decidendum e del thema probandum.