23 Settembre 2013

Diritto del datore di lavoro al risarcimento del danno da mancata percezione della prestazione lavorativa

IL CASO – Il dirigente medico di un’azienda ospedaliera, a seguito di un infortunio sul lavoro, causato da un incidente stradale, subisce un’inabilità temporanea assoluta, in ragione della quale l’INAIL liquida l’indennità prevista dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124.

Nel periodo di assenza dal lavoro, l’azienda ospedaliera eroga al dipendente-infortunato la retribuzione dovuta, comprensiva di INADEL, IRAP e INAIL.

Il datore di lavoro, quindi, chiede all’assicuratore del responsabile civile la restituzione delle suddette somme.

La fattispecie in esame pone all’attenzione dell’interprete la questione circa il riconoscimento della pretesa risarcitoria in capo al datore di lavoro a seguito dell’infortunio patito dal lavoratore dipendente.

Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il datore di lavoro ha diritto ad essere risarcito «per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative di un dipendente dal responsabile delle lesioni personali e dell’invalidità a questo cagionata, considerando che quella mancata utilizzazione integra un ingiusto pregiudizio che – indipendentemente dalla sostituibilità o meno del dipendente – è causalmente ricollegabile al comportamento (doloso o colposo) del detto responsabile» (Cass., S.U., 12 novembre 1988, n. 6132).

La giurisprudenza ravvisa in tale caso una chiara ipotesi di danno patrimoniale da lesione del diritto di credito; in particolare, è stato sostenuto, in modo pressoché pacifico, che «in base al principio dell’applicabilità della tutela aquilana, ai sensi dell’art. 2043 cod.civ., anche al caso di lesione del diritto di credito da parte di soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, l’autore del fatto illecito da cui siano derivati a un lavoratore dipendente lesioni personali con invalidità temporanea assoluta è tenuto a risarcire il datore di lavoro del danno sofferto per la corrispondente, cagionata mancanza delle prestazioni lavorative» (Cass., Sez. III, 22 settembre 1986, n. 5699).

Il danno patrimoniale del datore di lavoro è, quindi, dato dalla perdita delle prestazioni lavorative del dipendente infortunato e non dalla corresponsione in sé della retribuzione.

Il quantitativo delle somme erogate dal datore di lavoro al lavoratore non individua in modo diretto la perdita economica subita, costituendo piuttosto «un indice indiziario per la liquidazione patrimoniale del danno» (Cass., Sez. III, 22 settembre 1986, n. 5699).

Sulla risarcibilità dei contributi dovuti dal datore di lavoro agli enti di assicurazione sociale è possibile distinguere due opposti orientamenti.

Secondo una prima lettura, alquanto risalente, le componenti della retribuzione non direttamente connesse al valore della prestazione lavorativa non possono essere risarcite, in quanto somme dovute dal datore di lavoro non come corrispettivo dell’attività di lavoro, ma come oneri accessori non espressivi del valore economico della prestazione lavorativa mancata a causa dell’infortunio.

E tale principio è stato riconosciuto in giurisprudenza, affermando che: l’ammontare del risarcimento del danno cui ha diritto, ex art. 2043 c.c., il datore di lavoro comprende «l’ammontare delle retribuzioni corrisposte, per legge o per contratto, nel periodo di assenza del dipendente, con gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla data del verificarsi di tale assenza e della correlativa retribuzione a vuoto, atteso che tale erogazione retributiva, a differenza di quella per contributi previdenziali ed assicurativi (privi di funzione corrispettiva della prestazione lavorativa e dovuti per il solo fatto della esistenza del rapporto di lavoro), si traduce, in difetto dell’attività lavorativa dell’infortunato, in una perdita patrimoniale legata da rapporto di causalità con il fatto del terzo» (Cass., Sez. III, 30 ottobre 1984, n. 5562).

Gli oneri previdenziali e assicurativi, dovuti dal datore di lavoro non in misura corrispettiva dell’attività lavorativa prestata dal lavoratore, vanno esclusi dall’ammontare del danno patrimoniale sofferto dal datore di lavoro e, pertanto, non possono essere oggetto di risarcimento.

Ad avviso di altro orientamento giurisprudenziale, recentemente confermato (Cass., Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 2844), i contributi dovuti dal datore di lavoro agli enti di assicurazione sociale costituiscono componente del danno patito dal datore di lavoro a causa della mancata percezione della prestazione lavorativa nel periodo di inabilità temporanea del lavoratore infortunato.

In precedenza la Suprema Corte ha affermato la risarcibilità anche di questa componente di danno così argomentando: «non è riconducibile alla necessaria coerenza logico-giuridica il riconoscimento, da un canto, del danno costituito dall’importo della retribuzione pagata a vuoto e l’esclusione, dall’altro, del pregiudizio per il versamento dei contributi previdenziali a quella retribuzione direttamente connessi. In entrambi i casi l’obbligo del versamento è imposto dalla legge e non giova sottolineare che nell’ipotesi di retribuzione ricorre un rapporto di corrispettività delle prestazioni che non è dato invece riscontrare per il pagamento degli oneri previdenziali. La ordinaria corrispettività fra prestazione lavorativa e retribuzione non può dirsi invero concretamente operante allorquando il dipendente infortunato continui a percepire la retribuzione senza espletare il proprio lavoro e senza mettere a disposizione le proprie energie lavorative. Ma va soprattutto sottolineato che il valore economico della prestazione mancata – cui va rapportato il danno del datore di lavoro – non è dato esclusivamente dallo stipendio versato direttamente al dipendente ma dal costo complessivo di quella prestazione, costo che nell’ambito del rapporto di lavoro, così come complessivamente strutturato dalla vigente normativa, è rappresentato anche dall’importo dei contributi previdenziali ai quali il datore di lavoro non può sottrarsi» (Cass., S.U., 12 novembre 1988, n. 6132).

Nessun riferimento esplicito è fatto in giurisprudenza al recupero dell’IRAP pagata dal datore di lavoro nel periodo di assenza del lavoratore per infortunio.

Sulla questione della rimborsabilità dell’imposta di cui sopra, giova ricordare l’ormai costante orientamento giurisprudenziale in forza del quale unico soggetto passivo risulta essere il datore di lavoro-Azienda ospedaliera.

Si ricordi che presupposto di imposta per l’applicazione dell’Irap è «l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi» (art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997).

Sul punto è stato precisato come l’IRAP sia un’imposta reale ad esclusivo carico dell’Azienda sanitaria, non potendo essere traslata sui medici dipendenti della struttura, neanche nell’eventualità in cui questi svolgano attività libero professionale intramuraria (Comm. Trib. Reg. Lombardia, Sez. 18, 26 maggio 2011, n. 66). Ai medici-dipendenti, infatti, è stato riconosciuto il diritto ad ottenere il rimborso dell’IRAP loro trattenuta dall’Azienda ospedaliera sui compensi (Trib. Belluno, Sez. Lav., 26 aprile 2001).

Alla luce del suesposto orientamento giurisprudenziale, sembra possibile affermare che l’IRAP costituisce un costo aggiuntivo per la struttura sanitaria, del tutto scisso dalla prestazione lavorativa del medico. Difficilmente, dunque, essa può rappresentare un onere accessorio del rapporto di lavoro. In altri termini: l’imposta in esame non rientra nel costo complessivo della prestazione lavorativa.

Ne dovrebbe discendere l’esclusione della somma versata a tale titolo dal danno risarcibile all’Azienda ospedaliera per mancata fruizione della prestazione lavorativa del medico infortunato.

A proposito, infine, della questione concernente la possibilità per il datore di lavoro di agire direttamente nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile per conseguire il risarcimento del danno patito a causa della mancata utilizzazione della prestazione lavorativa, la Suprema Corte, sotto la vigenza dell’art. 18, comma 1, della Legge n. 990/1969, ha precisato che deve essere riconosciuta legittimazione attiva, anche al datore di lavoro, in quanto l’espressione «danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante» deve essere intesa in senso non restrittivo (Cass., Sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11099).

Stessa considerazione vale per l’art. 144, comma 1, D.Lgs. 209/2005, che, avendo riprodotto il contenuto della disciplina previgente, deve essere interpretato in modo analogo alla normativa anteriore (si veda A. Spena, art. 144 D.Lgs. 209/2005, in Aa. Vv., Il codice delle assicurazioni private.Commentario al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, diretto da F. Capriglione, II, 467 ss.).

Più precisamente, si deve ritenere legittimato a chiedere i danni, nei limiti del massimale, «chiunque abbia subito un danno, che con quel sinistro si trovi nel descritto rapporto causale a norma dell’art. 1223 cod. civ., cioè quel pregiudizio che, come nel caso del datore di lavoro per la mancata utilizzazione del dipendente infortunato, sia ricollegabile alla condotta del responsabile dell’accidente stradale quale sua conseguenza normale e regolare» (Cass., Sez. III, 21 ottobre 1991, n. 11099. Si veda anche Cass., Sez. Lav., 15 settembre 2003, n. 13549).

Dott. Rosalia Calandrino