Responsabilità ex art. 2051 c.c.: il committente è “custode” sino a che l’area di cantiere non sia stata completamente delimitata e chiusa al traffico

Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 12 luglio 2018, n. 18325

La stipula, da parte dell'amministrazione comunale, di un contratto di appalto avente ad oggetto l'esecuzione di lavori sulla pubblica via, non priva l'amministrazione committente della qualità di custode, ai sensi dell'art. 2051 c.c., sino a quando l'area di cantiere non sia stata completamente enucleata e delimitata, e sia stato vietato su di essa il traffico veicolare e pedonale, con conseguente affidamento all'esclusiva custodia dell'appaltatore. La realizzazione di un cantiere stradale su parte di una strada che continui, nella parte non occupata, ad essere aperta al pubblico transito, non priva l'ente proprietario della qualità di "custode" della porzione di strada rimasta percorribile.

Codice della strada: la contestazione deve essere immediata tranne nei casi di impossibilità

Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 9 luglio 2018, n. 18023

La contestazione immediata deve, dunque, essere effettuata se e quando sia possibile in relazione alle modalità di organizzazione del servizio predisposto dall'Amministrazione secondo il suo insindacabile giudizio, servizio il cui fine istituzionale è pur sempre quello di reprimere comportamenti pericolosi per la regolarità della circolazione e la vita degli utenti delle strade, mentre può legittimamente non essere effettuata in ogni altro caso in cui sia stato comunque impossibile procedervi. L'indicazione, poi, nel verbale di contestazione notificato, d'una ragione che rendesse ammissibile la contestazione differita dell'infrazione, rende ipso facto legittimo il verbale e la conseguente irrogazione della sanzione, senza che, in proposito, sussista alcun margine d'apprezzamento, in sede giudiziaria, circa la possibilità concreta di contestazione immediata della violazione, dovendo escludersi che il sindacato del giudice dell'opposizione possa riguardare le scelte organizzative dell'amministrazione.

Privacy: il consenso al trattamento dei dati personali deve essere specifico

Cass. Civ., Sez. I, sentenza 2 luglio 2018, n. 17278

In tema di consenso al trattamento dei dati personali, la previsione dell'articolo 23 del Codice della privacy, nello stabilire che il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, consente al gestore di un sito Internet, il quale somministri un servizio fungibile, cui l'utente possa rinunciare senza gravoso sacrificio (nella specie servizio di newsletter su tematiche legate alla finanza, al fisco, al diritto e al lavoro), di condizionare la fornitura del servizio al trattamento dei dati per finalità pubblicitarie, sempre che il consenso sia singolarmente ed inequivocabilmente prestato in riferimento a tale effetto, il che comporta altresì la necessità, almeno, dell'indicazione dei settori merceologici o dei servizi cui i messaggi pubblicitari saranno riferiti.

L’impugnazione del capo della sentenza che liquida il danno aquiliano attiene anche al calcolo degli interessi compensativi

Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 26 giugno 2018, n. 16815

Gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente, e che, conseguentemente, nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, che il giudice di merito, anche in grado dì appello o in sede di giudizio di rinvio, deve attribuire anche d'ufficio, senza per ciò solo incorrere nel vizio di ultrapetizione (Cass. 14 giugno 2016, n. 12140; Cass. 17 settembre 2015, n. 18243). Ne deriva che l'impugnazione della decisione di primo grado deve considerarsi estesa anche al computo degli interessi e consente, quindi, al giudice dell'appello (o del rinvio) di procedere alla loro liquidazione, anche in difetto di un puntuale rilievo sulla modalità di liquidazione prescelta dal giudice precedente, ogni qualvolta sia stato impugnato il capo della sentenza contenente la liquidazione del danno, rispetto alla quale la liquidazione degli interessi costituisce una mera tecnica liquidatoria (Cass. 18 luglio 2011, n. 15709; Cass. Sez. un., 5 aprile 2007, n. 8520).

Medici specializzandi: la discrezionalità del legislatore nazionale nella determinazione della retribuzione

Cass. Civ., Sez. III, sentenza 26 giugno 2018, n. 16805

Il «nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il decreto legislativo n. 368 del 1999 (a decorrere dall'anno accademico 2006/2007, in base alla legge n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell'ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata o condizionata dai suddetti obblighi» (Cass. n. 6355/2018). Ragione per cui l'inadempimento dell'Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l'emanazione del decreto legislativo n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell'Unione europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 - causa C131/97, Carbonari, e 3 ottobre 2000 - causa C-371/97, Gozza); e il d.lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale. Pertanto, non c'è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell'Unione europea e la causa promossa dall'odierna controricorrente, come correttamente ha osservato l'Avvocatura di Stato, è finalizzata in realtà ad ottenere l'applicazione retroattiva del d.lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare «esclusivamente l'ordinamento interno» (ordinanza n. 6355 del 2018). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell'entrata in vigore della normativa di cui al d.lgs. n. 368 del 1999 - che è una normativa più favorevole - rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicché il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l'art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno. Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno.

Responsabilità dell’avvocato: si applica la regola del “più probabile che non”

Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 26 giugno 2018, n. 16803

In tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa (cfr. Cass. n. 25112/2017 ); ed è stato pure ritenuto che nelle medesime controversie "la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell'azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione" (cfr. Cass. n. 3355/2014 ).

Equa riparazione: la sospensione feriale si applica al termine decadenziale di sei mesi

Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 20 giugno 2018, n. 16279

Il termine di sei mesi di cui all'art. 4 legge n. 89 del 2001, decorrente dal provvedimento che chiude la causa che ha violato la durata ragionevole del processo, oltre il quale l'azione di equa riparazione non è più proponibile, è termine stabilito "a pena di decadenza" (artt. 2964 e ss. cod. civ.), e la natura processuale della decadenza comporta che il periodo di sei mesi deve computarsi tenendo conto della sospensione feriale, come accade per ogni altro termine analogo (Cass., Sez. un., sentenza 22 luglio 2013, n. 17781).

Resp. medica: non è causa a sè non imputabile il temporaneo smarrimento di documenti

Cass. Civ., sez. III,sentenza 15 giugno 2018, n. 15762

Nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell'art. 345, comma 3, c.p.c., quale risulta dalla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012 (applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l'11 settembre 2012), pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza l'"indispensabilità" degli stessi, e ferma per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile ( cfr. Cass. 26522/2017).
La valutazione della giustificazione addotta rientra nei compiti del giudice di merito che deve darne logica e coerente motivazione, in mancanza della quale può ricorrere il vizio di nullità della sentenza ex art. 360 n° 4 cpc.
Il concetto di "causa a se non imputabile" deve essere ricondotto a ragioni ascrivibili a circostanze estranee alla sfera di controllo dell'interessato e non può essere dilatato sino a ricomprendere fatti dipendenti dalla negligenza organizzativa della parte, soprattutto nei casi, come quelli che interessano una struttura sanitaria ed il medico in essa operante, in cui la "buona organizzazione" dovrebbe essere uno dei tratti caratterizzanti della professionalità in discussione: conseguentemente la ragione allegata nel caso in esame a sostegno della tardiva produzione ( e cioè aver rinvenuto il documento in altra cartella clinica ) non può certamente configurare un impedimento "non imputabile alla parte onerata", dovendo essere ascritto ad una negligente conservazione della documentazione clinica che, in assenza di specifiche e peculiari ragioni rinvenibili in cause di forza maggiore o in fatti estranei al loro operato ( ragioni mai allegate), non può che essere imputata alla struttura sanitaria ed al medico interessato.

CTU: accertamento dei fatti, limiti e nullità relativa

Cass. Civ., sez. III, ordinanza 15 giugno 2018, n. 15745

In caso di accertamento della responsabilità medico-chirurgica, attesa l'innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie non solo alla comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, la consulenza tecnica presenta carattere "percipiente", sicché il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i fatti medesimi, ponendosi pertanto la consulenza, in relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva di prova.

La nullità della consulenza tecnica d'ufficio - ivi compresa quella dovuta all'eventuale allargamento dell'indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente - ha carattere relativo e deve, pertanto, essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata.

Lo sconfinamento dai limiti dell'accertamento tecnico preventivo - così come risultanti dal testo dell'art. 696 cod. proc. civ. anteriore alle modifiche apportate dall'art. 2, comma 3, lettera e-bis, del d.l. n. 35 del 2005, convertito con modificazioni dalla I. n. 80 del 2005 - dà luogo ad una inutilizzabilità soltanto relativa dell'accertamento. Ne consegue che, ove non sia concretamente configurabile alcuna violazione del principio del contraddittorio, per avere le parti effettivamente partecipato all'accertamento tecnico anche nei punti esorbitanti dall'incarico, ovvero allorché la relazione del consulente sia stata ritualmente acquisita agli atti senza opposizione delle parti stesse, si realizza la sanatoria del vizio, con conseguente utilizzabilità dell'accertamento, che può essere liberamente apprezzato dal giudice di merito in ogni sua parte e, quindi, anche in relazione alla causa del danno.

L’appaltatore deve controllare la correttezza del progetto e delle istruzioni impartite dal committente

Cass. Civ., Sez.II, ordinanza 12 giugno 2018, n. 15340

L'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (conf. cass., Sez. I, ordinanza 9 ottobre 2017, n. 23594). In particolare, l'appaltatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare non solo di aver manifestato il proprio dissenso, ma anche di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed "a rischio di quest'ultimo" (conf. Cass., Sez. II, sentenza 21 maggio 2012, n. 8016). Va, peraltro, ricordato che l'appaltatore viene ridotto a mero nudus minister solo quando è direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico (conf. Cass., Sez. II, sentenza 2 febbraio 2016, n. 1981).