09 Aprile 2018

I contratti bancari conclusi dal c.d. banchiere di fatto sono nulli e, quindi, convertibili, ai sensi dell’art. 1424 c.c.

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 28 febbraio 2018, n. 4760
I contratti di deposito a risparmio stipulati da un soggetto professionalmente dedito all’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico ed all’esercizio del credito, ma privo dell’autorizzazione prescritta dall’art. 14 del d.lgs. n. 385 del 1993, sono nulli ai sensi dell’art. 1418, primo comma, cod. civ.; pertanto, i detti contratti possono essere convertiti, ex art. 1424 cod. civ., ove, in presenza dei requisiti di forma e di sostanza degli ordinari contratti di mutuo o di deposito irregolare, risulti accertata l’ipotetica volontà delle parti.

La decisione in commento definisce in modo chiaro e preciso gli effetti che discendono dalla stipulazione di contratti bancari in assenza delle necessarie autorizzazioni: soltanto i soggetti autorizzati allo svolgimento dell’attività bancaria possono porre in essere contratti di natura bancaria.
Il difetto di legittimazione alla stipula del contratto determina la nullità dello stesso, ai sensi dell’art. 1418, primo comma, c.c. La contrarietà a norme imperative, infatti, non deve attenere necessariamente al contenuto del regolamento divisato dalle parti, potendo invece riguardare ogni altra condizione, oggettiva o soggettiva, di conclusione del contratto. La c.d. nullità virtuale non è configurabile – contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito – “soltanto in presenza di violazioni attinenti ad elementi intrinseci alla fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto”, dal momento che l’area delle norme inderogabili, dalla cui violazione può discendere la nullità del contratto, ha un contenuto molto più ampio, comprensivo di ogni previsione normativa che, espressamente o implicitamente, vieti la stipulazione del contratto. La stipulazione di un contratto in assenza di previste autorizzazioni o in mancanza di iscrizione di una delle parti contrattuali in albi o registri quale condizione di legittimazione per la stipula del contratto determina, quindi, la nullità del contratto per violazione di norma imperativa.
Più precisamente, qualora il legislatore vieti, in presenza di determinate circostanze o in assenza di specifiche condizioni, la stipulazione del contratto e il contratto venga comunque concluso, “è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo” (cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725).
La natura pubblicistica degli interessi sottesi alla previsione che riserva l’attività bancaria alle imprese autorizzate impedisce di qualificare l’invalidità in esame come “nullità di protezione”, nonché di ritenere le previste sanzioni penali come le uniche possibili reazioni ordinamentali alla violazione di norma imperativa. Come chiarito in giurisprudenza, infatti, nel caso in cui una norma si limiti a prevedere una sanzione penale o amministrativa per la violazione del divieto di concludere un contratto senza nulla dire in merito alla validità dello stesso, occorre verificare caso per caso se le norme che pongono il divieto e prevedono le sanzioni siano poste a tutela di un interesse pubblico e generale (cfr. Cass., Sez. I, 7 marzo 2001, n. 3272; Cass., Sez. II, 4 dicembre 1982, n. 6601).
Nel caso di specie, la natura superindividuale degli interessi tutelati dal divieto di stipulazione del contratto induce a ritenere non sufficienti le sanzioni previste dal Testo Unico Bancario e, quindi, deve affermarsi la nullità del contratto.
Il vizio in esame, inoltre, attenendo alla struttura dell’atto e, specificamente, ad un requisito soggettivo dello stesso, non può essere qualificato come “violazione di norme imperative riguardanti il comportamento dei contraenti”, dovendosi escludere, quindi, il ricorso alla responsabilità precontrattuale o contrattuale e ai connessi rimedi risarcitorio e risolutorio (cfr. Cass., Sez. I, 10 aprile 2014, n. 8462).
Alla luce delle precedenti osservazioni, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto nullo il contratto di deposito a risparmio, in quanto stipulato dall’attrice con un soggetto professionalmente dedito all’attività di raccolta di risparmio tra il pubblico e all’esercizio del credito, ma in assenza dell’autorizzazione prescritta dall’art. 14 del d.lgs. n. 385/1993.
L’invalidazione del contratto non determina, però, l’eliminazione tout court della vicenda contrattuale in esame, dal momento che si ritiene possibile ricorrere al meccanismo della conversione di cui all’art. 1424 c.c., in forza del quale consentire al contratto nullo di produrre gli effetti di un diverso contratto di cui siano presenti i requisiti di forma e di sostanza (nel contratto nullo), sempre che risulti possibile accertare la volontà ipotetica delle parti. La conversione, infatti, può operare nella sola ipotesi in cui sia possibile provare che le parti, ove fossero state a conoscenza sin dall’origine della nullità del contratto stipulato, avrebbero optato per un diverso contratto (quello che risulta dalla conversione).
Si tratta di un accertamento rimesso al giudice di merito, il quale, in sede di rinvio, dovrà “stabilire se dalle difese svolte dall’attrice possa desumersi univocamente la volontà di ottenere, in alternativa al riconoscimento degli effetti del deposito bancario, quello degli effetti di un comune contratto di mutuo o deposito irregolare, ai fini della conversione dei contratti dichiarati nulli”.

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Rosalia Calandrino