Responsabilità dell’intermediario finanziario: la liquidazione equitativa del danno non surroga la prova dell’an debeatur
L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché grava sulla parte interessata l'onere di provare non solo l'an debeatur del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi in re ipsa, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (conf. Cass., n. 127/16; Cass., n. 4534/17).
In materia di danni derivanti da illecita attività di intermediazione finanziaria, il ricorso alla liquidazione equitativa di cui agli artt. 1226 c.c. e 2056 c.c. non può prescindere dal previo accertamento dell’esistenza di pregiudizi risarcibili la cui esatta quantificazione risulti impossibile o particolarmente difficile.
Ciò implica che l’attore che agisce in giudizio al fine di ottenere il risarcimento di danni non facilmente liquidabili non può limitarsi ad invocare la valutazione secondo equità senza fornire elementi probatori sufficienti a far ritenere sussistente un pregiudizio risarcibile. La giurisprudenza, inoltre, onera l’attore dell’ulteriore obbligo di produrre in giudizio ogni circostanza fattuale utile a consentire al giudice la liquidazione equitativa del danno.
Trattasi di principio generale, discendente dalla natura del criterio in esame; infatti, la valutazione equitativa del danno non attiene all’an dell’obbligazione risarcitoria, ma alla liquidazione, ossia alla specificazione del quantum risarcibile (Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. Iudica Zatti, Milano, 1991, 653).
La valutazione equitativa del danno rappresenta il criterio di chiusura del sistema ed opera solo nell’eventualità in cui il danno, seppure provato nella sua sussistenza, non risulta agevolmente quantificabile.
Nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, “non ricorrevano i presupposti della liquidazione equitativa del danno lamentato, in quanto i ricorrenti non ne avevano dimostrato la sussistenza. Invero, premessa l’irrilevanza del riferimento alla asserita notorietà dell’azzeramento di valore del titolo a seguito del default argentino, va osservato che il danno allegato sarebbe consistito nella differenza tra la somma impiegata per l’acquisto dei titoli in questione e il valore residuo dei titoli convertiti, la cui prova necessariamente gravava sugli investitori afferendo al fatto costitutivo del diritto fatto valere”.
Più precisamente, il lamentato danno discendente dall’effettuazione di un investimento inadeguato rispetto al profilo dei ricorrenti non veniva riconosciuto dal giudice d’appello in quanto non sufficientemente provato. In particolare, il pregiudizio conseguente alla perdita di valore delle obbligazioni acquistate a seguito del default della società emittente non costituiva danno in re ipsa e la difficile liquidazione dello stesso, nel consentire il ricorso alla liquidazione secondo equità, non escludeva la necessarietà della prova della sussistenza del danno.
Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, escludendo, quindi, il diritto dei ricorrenti al risarcimento del danno.
Rosalia Calandrino