Diritto a non nascere se non sano – Escluso il diritto alla non vita
“Se l’astratta riconoscibilità della titolarità del diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato al risarcimento del danno, per mancata diagnosi tempestiva, non trova ostacolo insormontabile nell’anteriorità del fatto illecito alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell’art. 1 c.c., occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno. _x000d_
Sotto questo profilo, si deve partire dal concetto di danno-conseguenza consacrato all’art. 1223 c.c. e riassumibile, con espressione empirica, nell’avere di meno, a seguito dell’illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita del bambino, e l’assenza di danno alla sua morte. _x000d_
Ed è qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita. _x000d_
Il supposto interesse a non nascere, come è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell’attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia, come tale indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità). _x000d_
L’ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita._x000d_
Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell’effetto pregiudizievole. La formula, concettualmente fluida e inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni poste in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento evidentemente non predicabile in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività._x000d_
Non è fondata nemmeno la tesi che àncora la sussistenza del credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione, di cui sarebbe beneficiario il nascituro handicappato, in quanto si può ritenere compensabile la penosità delle difficoltà, cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà nazionale generale._x000d_
Né può essere taciuto, da ultimo, il dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza la strada ad una analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art. 6 della l. n. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire”.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte intervengono in tema di legittimazione attiva del soggetto nato malato, sancendo il principio, di cui sopra, secondo cui è esclusa la possibilità di riconoscere il diritto a non nascere se non sano, cioè a dire il diritto alla non vita._x000d_
In relazione, invece, al motivo di ricorso afferente il riparto dell’onere della prova del grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente dalle gravi malformazioni del nascituro, le Sezioni Unite censurano la statuizione della sentenza d’appello in quanto manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati._x000d_
“Se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie che giustifica il ricorso alla interruzione della gravidanza non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex art. 2697 c.c., si palesa manchevole, invece, l’omessa valutazione della possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva._x000d_
Ci si riferisce alla presumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’art. 2729 c.c., che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo id quod plerumque accidit – che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera del notorio (art. 115, c. 2, c.p.c.) – ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche – emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di malformazione del feto, ecc._x000d_
In questa direzione il tema di indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale; restando sul professionista la prova contraria che la donna non i sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale._x000d_
È da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad una elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto; che, proprio per il suo carattere generale ed astratto, mai dissimulerebbe l’inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum”.