26 Giugno 2007

Risarcimento del danno – Perdita delle prestazioni lavorative del dipendente

“Nel caso in cui un lavoratore dipendente venga ferito in un sinistro stradale (o in qualsiasi altro frangente) il suo datore di lavoro non può chiedere all’investitore/feritore) il risarcimento del danno consistente nella perdita delle prestazioni lavorative del dipendente, trattandosi di danno solo mediato e indiretto rispetto alla lesione dell’integrità fisica del dipendente, non risarcibile, dunque, per la disposizione normativa di cui all’art. 1223 c.c.”

Il Tribunale di Catania, rigettando la domanda avanzata dal Ministero della Difesa contro il responsabile di un sinistro stradale, al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla corresponsione “a vuoto” degli emolumenti del proprio dipendente assente dal servizio, poichè vittima del sinistro stesso, si pone in contrasto con l’orientamento della S.C. secondo il quale “il responsabile di lesioni personali in danno di un lavoratore dipendente, con conseguente invalidità temporanea assoluta, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative, poiché ciò integra un ingiusto pregiudizio, a prescindere dalla sostituibilità o meno del dipendente, causalmente ricollegabile al comportamento doloso o colposo di detto responsabile. Tale pregiudizio, in difetto di prova diversa, è liquidabile sulla base dell’ammontare delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, obbligatoriamente pagati durante il periodo di assenza dell’infortunato, atteso che il relativo esborso esprime il normale valore delle prestazioni perdute (salva restando la risarcibilità dell’ulteriore nocumento in caso di comprovata necessità di sostituzione del dipendente)” (Cass. Sez. Un., 12 novembre 1988, n. 6132)._x000d_
In particolare, secondo il tribunale catanese la sentenza delle S.U., sopra richiamata, viola, nei suoi esiti, le disposizioni normative di cui al combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 c.c. con riferimento al fatto che i danni che vanno risarciti sono solo quelli che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento contrattuale e/o dell’illecito aquiliano._x000d_
Sottolinea, al riguardo, il giudice come “per un verso, l’art. 1223 c.c. sia particolarmente incisivo nel porre il limite in questione all’estensione del risarcimento dovuto. Il legislatore ha sentito il bisogno, infatti, di ricorrere ad una endiadi – “immediato e diretto” – evidentemente perché restasse chiaro e indubitabile che si voleva porre un limite forte. Mentre, per altro verso, il limite in questione è di grandissima rilevanza con riferimento alle scelte politiche del legislatore sull’assetto da dare al sistema del risarcimento dei danni._x000d_
Insomma, sembra di tutta evidenza che lo scardinamento del limite posto dall’art. 1223 c.c. è un’operazione insieme illegittima e arbitraria e gravida di conseguenze estremamente rilevanti su tutto il sistema dei rapporti giuridici contrattuali ed extracontrattuali. _x000d_
Indirizzi giurisprudenziali come quello fin qui criticato sembrano fondati sull’intento dei giudici di risolvere una qualche apparente iniquità che esercita una forte suggestione emotiva: nel caso di specie, essa viene indicata nella individuazione di quello che viene definito come il “vero danneggiato” (il datore di lavoro), in alternativa a quello che dovrebbe essere ritenuto, dunque, un “falso danneggiato” o magari solo un “danneggiato apparente” (l’investito)! Ma fare equità (peraltro spesso solo apparente) in danno del diritto, per un verso, non è consentito dalla legge e, per altro verso, è assai pericoloso, per le ricadute, spesso paradossali e incontrollabili, che lo stravolgimento di principi fondamentali del diritto ha poi sui mille casi della vita sottoposti al giudizio dei tribunali._x000d_
Se singole fattispecie richiedono un assetto giuridico speciale (nel senso tecnico, di diverso da quello ordinario), è compito del legislatore, se lo ritiene, darglielo”._x000d_
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